Gianni Savelli
Gianni Savelli
Sassofonista, compositore, arrangiatore Gianni Savelli (Napoli 1961) si è fatto le ossa suonando in diversi contesti, dal pop, alla musica improvvisata… al jazz canonicamente inteso. Nel 2000 nasce Media Res, qualcosa che va al di là del semplice gruppo musicale: si tratta, in effetti, di un progetto attraverso cui Savelli cerca di portare ad unità le varie fonti che hanno ispirato il suo fare musica. Nel 2015 l’album ‘Magellano’, pubblicato dall’etichetta tedesca Neuklang, completa la trilogia iniziata con ‘Media Res’ (2004) e proseguita con ‘Que la fête commence’ (2008). Ed è proprio da quest’ultima realizzazione discografica che prende il via questa intervista raccolta nel dicembre del 2015.
Partiamo dall’oggi; cosa rappresenta per te questo magellano?
Partirei dal titolo: magellano nasce dalla fascinazione per questo grande personaggio che ha cambiato la storia dell’uomo. L’esplorazione di Magellano è un impresa che chiude un epoca e ne apre un’altra ridisegnando totalmente l’immagine che l’uomo europeo aveva del mondo. Con le dovute proporzioni, e riferendomi ad un orizzonte personale, questo disco allo stesso modo rappresenta per me un punto di partenza e d’arrivo. E’ il terzo atto dell’attività di Media Res, di cui si può dire sia una sorta di esplorazione nella musica suscitata dal fascino esercitato su di me da culture diverse partendo da quella europea, passando per quella afro-americana approdando a quelle asiatiche. Così, mentre, nel primo disco si potevano riconoscere con una certa facilità le diverse influenze, Brasile, Cuba, Africa, India e così via; nel secondo disco queste differenti fascinazioni si sono cominciate ad unire in modo coerente e con magellano si è realizzata la sintesi di quello che cercavo. Potrei dire che il mio percorso è stato quello di trattare la musica come un linguaggio narrato. Quindi, mi sono trovato a prendere le “parole” delle diverse lingue di mio interesse per poi scomporle in unità più piccole come fossero “lettere” al fine di ricomporre queste unità in un nuovo linguaggio di sintesi. Da qui la creazione di una musica che fosse più aderente alle mie intime necessità.
Vogliamo ricordare i titoli dei primi due album?
Certamente: il primo si intitola semplicemente media res e venne pubblicato nel 2004 da JazzInRoma, il secondo que la fête commence fu pubblicato nel 2009 da Alfa Music.
Quindi un percorso lungo…
Si, quasi sedici anni. Tre album, forse pochi, ma per me ogni disco rappresenta una tappa nella maturazione della mia sensibilità. Quindi questo magellano rappresenta allo stesso tempo un punto di partenza e un punto d’arrivo…
Un punto d’arrivo perché rappresenta la chiusura di una trilogia, un punto di partenza perché segna il passo con la mia disponibilità a vivere la musica in una maniera più libera. Sono aperto a qualsiasi novità sia sul piano musicale che su quello del rapporto di condivisione con il pubblico.
Per esempio?
Si potrebbe fare l’esempio del video ‘Pacifico’. Per la sua realizzazione abbiamo fatto una vera e propria ‘call for action’. Vale a dire, una sorta di appello alla mobilitazione rivolto alle persone che mi seguono, con la richiesta che ci fossero regalate immagini che per loro erano significative, evocative di emozioni suscitate dal brano. E’ arrivato un numero enorme di immagini, piccoli filmati, spesso di straordinaria qualità e noi li abbiamo ricondotti a un possibile disegno registico. Una delle idee che abbiamo voluto esprimere attraverso il video è quella di un tempo che non è il concetto cronometrico ma piuttosto è più vicina a quello che nell’antica Grecia veniva chiamato Kairos, cioè un tempo dinamico in cui nell’istante presente accadono molte cose simultaneamente. Le persone che hanno partecipato a questa iniziativa, vedendo il video e riconoscendo il proprio contributo, si sono sentite direttamente coinvolte. Per la copertina di magellano abbiamo agito in un modo simile. Abbiamo iniziato proponendo a delle persone tre differenti progetti, abbiamo fatto ascoltare la musica e poi, tenendo conto dei loro suggerimenti, abbiamo preparato due possibilità che abbiamo sottoposto al vaglio di settanta persone. Sono state loro che hanno avuto l’ultima parola.
Ma come avete scelto queste persone?
Sono persone che mi seguono, appassionati della mia musica che quindi erano già dentro il mio discorso.
Tu hai frequentato anche la musica improvvisata… cosa lontana le mille miglia da questo lavoro…. è possibile conciliare questi due aspetti della tua personalità o la musica improvvisata fa parte del tuo passato?
No; la musica improvvisata non fa parte del mio passato e sono certo che nel futuro tornerò a praticarla. Certamente in Media Res c’è un interesse molto forte per la composizione che nel disco si concretizza in particolare nei due brani orchestrali. La composizione, intesa non solo come preparazione dell’architettura globale, ma anche come attenzione al singolo dettaglio nello scorrere della musica, è un qualcosa che mi affascina. Al tempo stesso anche se in magellano non si può certo parlare di musica improvvisata, l’atteggiamento del quintetto, cioè del nucleo di Media Res (Zanisi, Pirozzi e Marzi oltre a Bassi che c’è dall’inizio) è quello di un approccio all’improvvisazione di grande libertà e freschezza, pur rimanendo nell’ambito della forma. Grazie alla magnifica intesa che esiste tra di noi questo viene fuori soprattutto nei concerti, nei quali la dimensione corale e di libertà espande ulteriormente ciò che intendevo realizzare con questo progetto.
Come è nata questa tua passione per le big band?
E’ nata, semplicemente, perché mi ci son trovato. Sono nato a Napoli, mio padre lavorava alla Nato cosicché si cambiava spesso città; da adolescente ho cominciato a studiare il flauto… ho scoperto il rock, poi il jazz-rock… poi il sassofono, poi Coltrane… quando sono arrivato a Roma nell’80, la mia dimensione era quella coltraniana… A venti, ventidue anni ho incontrato Bruno Biriaco che mi ha invitato a far parte della sua orchestra e in quest’ambito ho affinato la mia preparazione… attraverso le big band ho imparato molto e mi è sempre piaciuto suonare in orchestra. Da qui il bisogno di approfondire ulteriormente la materia, di conoscere meglio il mondo, la realtà della orchestra nelle sue varie articolazioni.
Come ricordi, come valuti la tua esperienza nell’ambito della PMJO, cioè l’orchestra del Parco della Musica?
E’ stata un’esperienza meravigliosa. Era un’orchestra che già esisteva sotto un altro marchio, Roma Jazz Ensemble, diretta da Mario Corvini e Pietro Jodice e che aveva una sua propria identità. L’Auditorium ci propose di farla diventare un’orchestra residente sotto il marchio PMJO e di affidare la direzione artistica a Maurizio Giammarco. La condizione di orchestra residente, che non vuol dire stabile, ha dato continuità ai nostri progetti che si articolavano su tre filoni principali: quello divulgativo per cui facevamo musica di repertorio in affollati concerti la domenica mattina, quello dedicato ai progetti interni all’orchestra, soprattutto di Giammarco, Corvini e Jodice, e poi quello dedicato ai grandi compositori e arrangiatori viventi. Lì si è aperto un mondo, in sette anni hanno collaborato con noi alcuni dei più importanti nomi del jazz internazionale, da Maria Schneider a Brookmeyer per citare solo due nomi… e anche molti direttori e compositori italiani. E’ stata un’esperienza, come ti dicevo, meravigliosa. Peccato sia finita per ora.
Ma perché è finita?
Sarebbe molto lungo cercare di spiegarlo, potrei dire che a un certo punto ci sono state ragioni istituzionali ed economiche che non hanno permesso di andare avanti. In molti speriamo fortemente che non sia un’esperienza finita, degli spiragli di tanto in tanto si aprono. Certo, alle buone intenzioni, dovrebbero seguire delle azioni con una certa continuità.
E parliamo, invece, di una iniziativa nuova di zecca: il portale ItaliaJazz. Che impressione hai ricavato dalla conferenza stampa di pochi giorni fa?
Senza dubbio positiva perché finalmente sono assieme da una parte un cartello di organizzatori e produttori che operano nel territorio nazionale e dall’altra l’associazione che rappresenta molti musicisti italiani di jazz. Accanto a questi soggetti c’è l’istituzione, cioè il Ministero. Questa collaborazione su un piano, potremmo dire paritario, potrebbe far molto. In Italia il jazz è una realtà ormai enorme … più di quattro mila concerti l’anno … tanti dischi, tante iniziative… rimane però una realtà autoreferenziale. Mi spiego meglio: nella televisione, il jazz è del tutto assente e nella radio, a parte RadioTre, siamo nella stessa situazione. Il grande pubblico recepisce il jazz come qualcosa riservata a una piccola élite, a degli esperti. E’ un controsenso se noi pensiamo che il jazz negli anni Trenta, Quaranta era una musica popolare che faceva parte della vita quotidiana di un gran numero di persone, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. La raffigurazione del jazz come musica di nicchia non credo risponda pienamente alla realtà. Mancano le informazioni da parte dei mass media. Si potrebbe obiettare che c’è Internet. E’ vero, ma sappiamo che la rete fornisce informazioni a chi quei determinati canali frequenta con buona costanza. Per questo spero che la nascita del portale e la collaborazione tra istituzioni e mondo del jazz, possa aiutare ad avvicinarsi a questo genere musicale.
Comunque resta il fatto che in Italia ci sono tantissimi bravi musicisti cui non corrispondono altrettante occasioni di lavoro…
Il mondo cambia; alcune realtà che fanno parte della professione del musicista col tempo vanno ad assottigliarsi se non a scomparire. Se cento anni fa in una qualsiasi occasione di festa tu avevi bisogno di almeno uno o due musicisti in carne ed ossa, oggi basta una compilation, una pennetta, un telefonino, un computer, due casse amplificate e il gioco è fatto. E’ un fenomeno che è parte dello sviluppo della civiltà umana … se sia vero progresso o meno, è un altro discorso. I musicisti di oggi, anche della mia generazione, debbono ripensare completamente le proprie modalità di lavoro. Certamente le istituzioni pubbliche sono fondamentali, ma è altresì necessario trovare nuove strade per tutto ciò che ha a che fare con la produzione artistica. Sono convinto sia indispensabile un ripensamento da parte dei musicisti che tenga presente un fatto fondamentale: la musica è non solo dei musicisti ma anche e soprattutto del pubblico, di chi la ascolta, di chi ne fruisce. Da qui la necessità di creare un rapporto nuovo che coinvolga direttamente le persone non come spettatori passivi ma come attori in prima persona. Non c’è bisogno di aver paura che in un processo di questo tipo venga meno la qualità, anzi! La musica, e a maggior ragione il jazz, non è un fenomeno da rinchiudere nelle quattro mura della casa del compositore. Nel momento in cui viene condivisa, la musica entra a far parte di un patrimonio in cui ciascuno vive delle emozioni che sono sue, soltanto sue. Ogni volta che ascolti un disco o assisti a un concerto stai vivendo qualcosa che ti arricchisce.
Puoi farmi un esempio per capire meglio quanto hai detto?
Il primo album, media res, si apriva con un brano - Dance You Can Dance - che avevo scritto nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di mio padre. Nei concerti lo introducevo spiegando le circostanze in cui era nata quella composizione. Una volta lo abbiamo suonato come bis, e quindi, senza alcuna spiegazione. Nei camerini mi si avvicina una ragazza in lacrime e mi racconta che durante tutto il pezzo aveva rivissuto l’esperienza, analoga alla mia, che le era toccata di recente. La musica certamente non è semantica ma ha un potere evocativo assai misterioso. Da qui la mia convinzione che per la musica si possano ancora fare molte cose sul piano strutturale. Insomma bisogna evidenziare meglio, sottolineare la reciprocità che esiste tra musicista e ascoltatore. Chi dice che la musica sia per molti ma non per tutti, per me commette un colossale errore. Mettere il musicista su un piedistallo non va bene, non è così. Tu, musicista, hai avuto la fortuna di nascere con un talento che va condiviso con le altre persone. Mettersi in una posizione di superiorità nei confronti degli altri, che poi sono le stesse persone che ti sono indispensabili in quanto senza pubblico non vai da nessuna parte, è francamente assurdo e inaccettabile. E’ su questa strada che intendiamo incamminarci tanto che stiamo pensando ad un qualche evento in cui le barriere tra musicista e pubblico siano completamente abbattute. Ma è ancora troppo presto per darti ulteriori dettagli.
Pur essendo sostanzialmente d’accordo con te, ho una forte, fortissima perplessità. Il tuo discorso postula una buona preparazione musicale di base che in Italia, purtroppo, non c’è…
Hai perfettamente ragione. Mi viene in mente quella colossale e meravigliosa operazione che è stata fatta in Venezuela, cioè il progetto sociale e musicale messo a punto parecchi anni fa da Josè Antonio Abreu. Aprendo scuole di musica nelle favelas e andando a cercare i ragazzi di casa in casa, di baracca in baracca direi, in moltissimi, invece di diventare trafficanti di droga, sono diventati musicisti di professione. Il progetto Abreu ha salvato migliaia di ragazzi, ha prodotto un’orchestra strepitosa. Se c’è la volontà, si possono fare cose incredibili. Lo stesso problema in Italia lo vivono le arti figurative. Oramai nel nostro Paese l’indirizzo educativo prevalente è quello di conoscere il mondo esclusivamente attraverso il verbale, mentre sono totalmente dimenticati gli aspetti visivo e auditivo. Rinunciare alla visione immaginifica della realtà attraverso l’udito e la vista è davvero molto triste.
28/01/2016
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