Gianni Savelli

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Gianni Savelli

Alla scoperta dell'uomo attraverso la musica di Ilaria Ferri

28/01/2016


La tua biografia si caratterizza di tantissime collaborazioni, con artisti provenienti da generi molto diversi: musica pop, da film, per la televisione, per il teatro e moltissime altre, cosa ti spinge a focalizzare i tuoi progetti personali sul jazz? È stata una scelta alla quale sei giunto inconsapevolmente, semplicemente seguendo le tue passioni? O un desiderio preciso che ha influenzato le varie scelte della tua carriera?


Ho sempre pensato alla musica come un tutt’uno. Le etichette non hanno mai fatto particolarmente presa su di me, perché servono a separare, non ad unire. La musica  nasce dalla vita, dalle esperienze che si fanno e dalle emozioni che riesce a ripescare nella nostra memoria. Da qui la possibilità di fare musica assieme agli altri, e non intendo solo i musicisti. Quando una persona viene ad un tuo concerto è parte integrante di quello che sta succedendo in quel momento anche in termini musicali. Anche se non la vedi negli occhi, la sua presenza ti influenza. Anche quando in privato si ascolta un disco accade qualcosa di simile, perché un lavoro discografico racchiude in sé una esperienza, un vissuto, ed è oltretutto ripetibile a proprio piacimento. Per questo non riesco a pensare alla musica in termini di steccati, di generi. L’unica distinzione che sono in grado di fare è tra buona musica e cattiva musica.

Se qualcosa è autentico, sincero, originale merita attenzione. Certamente poi i risultati possono essere diversi. Un sonetto di Shakespeare  riesce a trovare delle angolazioni più intime, raffinate, profonde di una emozione. Per questo noi musicisti cerchiamo di migliorarci sempre. Non tanto per una specializzazione fine a sé stessa quanto per essere in grado di cogliere e comunicare sfumature sempre più sottili delle emozioni. Da qui il Jazz. Non tanto, o non solo, perché il mio strumento principale è il sassofono, e quindi certi amori vengono da sé. Quanto, piuttosto, perché nel secolo scorso il Jazz ha ereditato dalla musica cosiddetta classica il testimone della esplorazione nei differenti territori musicali e per certi versi si è spinto ancora oltre, grazie alla improvvisazione  e a una concezione del ritmo che viene dall’Africa che era sconosciuta alla musica europea.


Il jazz, nonostante sia un genere ormai diffuso, è ancora visto come una musica colta, di nicchia. È davvero così? Tu sei anche un insegnante, come si approcciano al jazz le nuove generazioni?


E’ un paradosso considerare il Jazz come una musica colta o di nicchia. Negli anni trenta in America era addirittura la musica ballabile per eccellenza. In molti film degli anni cinquanta ed oltre spesso recita un ruolo da protagonista. Addirittura, nella musica leggera italiana fino agli anni sessanta sono riconoscibili molti elementi del Jazz. Poi è venuto il rock. Ma nel rock, se andiamo a guardare bene c’è molto più jazz di quello che si pensa. Molti dei ritmi del rock sono basati su ritmi africani. Senza entrare nei dettagli c’è molto jazz nella musica che si ascolta normalmente, ma non ce ne rendiamo conto. Per questo non ci vuole poi molto per appassionarsi a questa musica. Moltissimi amano Frank Sinatra, Ella o Nat King Cole. Per conoscere ed apprezzare altre cose è sufficiente un po’ di curiosità. Credo una cosa molto importante sia andare ad ascoltare  musica dal vivo. Sentire i musicisti suonare per te è una esperienza formidabile per qualsiasi persona. Se ce ne priviamo corriamo il rischio di quei bambini che pensavano che i polli avessero quattro gambe avendoli conosciuti solo nelle confezioni dei supermercati. E allora il problema non è per il Jazz e neanche per la Musica, ma per l’Uomo.  


La figura di Magellano è quella di uomo avventuroso che si è spinto in mari sconosciuti per cercare “nuove strade”. La tua musica fa spesso riferimento al viaggio, a luoghi lontani; ascoltandola si possono infatti scorgere influenze, stratificazioni, citazioni. Durante la composizione della tua musica, da cosa trai ispirazione? Cosa ti colpisce maggiormente tra quello che ascolti, vedi e vivi? E come diventa tuo ed entra nella tua musica?


In un certo senso quando parliamo di luoghi parliamo delle persone che li abitano. Ed è certamente possibile dire anche l’esatto contrario. Cioè, gli uomini, l’ambiente in cui vivono e le culture cui questa simbiosi dà vita sono un tutt’uno. Le diverse musiche nelle varie culture sono le differenti espressioni dello stesso uomo che vive e cresce in circostanze diverse. Quindi esplorare luoghi nuovi, persone musica o cultura in generale, alla fine è la stessa cosa. O almeno per me è così. E’ difficile dire cosa sia a colpirmi in particolare. Ci sono innumerevoli sfumature diverse per raccontare. Ogni volta che scopri che altre persone, luoghi etc… raccontano qualcosa che profondamente ti appartiene in un modo diverso da quello cui sei abituato, scopri una nuova possibilità per raccontare te stesso. Così impari a dire quella cosa in un’altra maniera così che altri possano trovare a loro volta qualcosa di sé nel tuo racconto.


Il viaggio è un leitmotiv della tua musica, ma anche della tua vita, infatti a breve suonerai in diverse parti d’Europa. In questo periodo in cui si continua a parlare di confini, di migrazioni, di chiusura e di paura, di mancanza di integrazione e di integralismi vari. È cambiato il modo di viaggiare e l’accoglienza che si riceve in altri paesi? O la musica è veramente qualcosa che unisce le persone e fa comunicare anche realtà molto diverse tra loro?


Muovermi, e in particolare muovermi per suonare, è una delle cose che amo di più nella vita. Mi sento molto fortunato ad avere la possibilità di esplorare il mondo intorno a me in questo modo. Rispetto al tema più generale cui fai riferimento nella tua domanda direi una cosa molto semplice. Un elemento fondamentale per l’uomo nel corso della sua evoluzione è stato che davanti a situazioni che ne mettevano a rischio la sopravvivenza ha spesso reagito spostandosi in ambienti più favorevoli. Il muoversi, il cosiddetto migrare, è un tratto antropologicamente decisivo per la specie umana. Opporsi a questo per motivi economici, culturali o politici equivale a negare la nostra stessa natura umana. La musica, forse più di altre espressioni della nostra umanità, è uno strumento fondamentale per avvicinare e far comprendere reciprocamente persone e popoli che vivono situazioni di opposizione. In quest’ottica mi sento ancora più fortunato di potermi occupare di musica.


Le persone e il loro rapporto con la tua musica: ci sono momenti legati a qualche concerto, che rimarranno nella tua memoria per sempre? Qualche reazione o comportamento di persone che ti seguono che ti ha fatto davvero emozionare?


Ti racconto un episodio che è successo qualche anno fa. Ti parlo di un qualcosa che è accaduto tra me, la mia musica e una persona che ascoltava la mia musica. Vorrei però che lo inquadrassimo in una visione più generale, perché è quello che normalmente accade attraverso la musica, e non è certamente qualcosa di particolare che riguarda solo me.  Anni fa, proprio nei giorni immediatamente successivi alla morte di mio padre, mi trovai a buttare giù delle idee che poi, lavorandoci su, diventarono ‘Dance you can dance’ il brano di apertura del primo album di Media Res. Nel presentarlo ai concerti quasi sempre parlavo delle circostanze in cui il pezzo era stato scritto. In una occasione in cui non lo feci, alla fine del concerto mi raggiunse nei camerini una ragazza che, in lacrime, mi raccontò di aver vissuto una grande emozione pensando, durante tutto il brano, al suo papà.

Non penso ovviamente di aver nessun potere particolare, né penso che quel pezzo ‘significhi’ quello o qualsiasi altra cosa in particolare. Certamente  la musica però, tutta la musica, non la mia, o se vogliamo non solo la mia, ha un enorme potere evocativo. Proprio per questo credo valga la pena tentare nuove esplorazioni. Non puoi mai escludere che, per chi salga a bordo, questo non possa significare ritrovare qualcosa di sé.


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